IL PASSATO, di Asghar Farhadi, Francia/Italia 2013, 130 minuti
di Marinella Doriguzzi Bozzo
In Tradimenti (1978), Harold Pinter mette a punto uno dei suoi testi teatrali più suggestivi, e scandisce in nove scene la fine di un triangolo amoroso riavvolto man mano su se stesso, retrocedendo sino al suo primo formarsi: l’amalgama fra il meccanismo, i personaggi e il linguaggio rimane in perfetto, matematico ed emozionante equilibrio dall’inizio alla fine. Ne Il passato, il quarantenne regista iraniano Asghar Farhadi sembra mutuarne, con tutt’altro spirito, la straordinaria alchimia, capovolgendo però il vettore temporale in quanto tutto si svolge in un presente intento a capire progressivamente le ragioni del perché e del come i nostri atti ci seguano. Con un ulteriore, interessante passaggio che sposta il copione dal teatro alla specificità del cinema: l’unità di tempo, di luogo e di azione è resa con la naturalezza del quotidiano, sicché non si respira surrettiziamente la polvere delle assi del palcoscenico, ma il sapore del caffè e latte, l’odore assonnato dei letti disfatti, la serietà dei giochi dei bambini, grazie ad una ambientazione scenografica di mirabile realismo filologico, che omogenizza gli interni e gli esterni in un unico, affollatissimo e sempre riconoscibile fondale.
Uomo con un piede in Francia e l’altro in Iran, finché il ruscello della vita non gli si allarga sotto rischiando di travolgerlo, Amhad arriva a Parigi da Teheran. La ex moglie ne ha richiesto la presenza per chiudere le pratiche del loro divorzio. A poco a poco si rende conto delle ragioni inizialmente taciute dalla donna, che vuole risposarsi. Entrano ed escono così dalla scena i figli di primo e di secondo letto, nonché i nascituri del terzo, secondo l’andazzo di famiglie espanse come agavi irte di spine; intanto il concetto di maternità e di paternità si sposta di volta in volta non in termini biologici, quanto in ragione delle possibilità di accudimento e di ascolto, mentre la gamma delle ambiguità, delle azioni e delle reazioni coinvolge lo psicanalitico mondo degli adulti, quello giustiziere degli adolescenti, lo sguardo intento altrove dei bambini che tuttavia spiano con le orecchie e giungono diritti alla verità, giudicando per istinto osmotico, in assenza delle chiavi interpretative dei grandi. Le condizioni di chi mette al mondo figli credendo ogni volta in un per sempre di coppia che, viceversa, va puntualmente in cocci, vengono indagate secondo una modalità che spannocchia la verità chicco dopo chicco e si dispiega in una sorta di thriller in cui l’incastro dei piccoli, successivi e continui colpi di scena è sia disvelamento che agente catalitico e motore. Sino ad uno scioglimento che sembra lasciare le cose come stanno, ma anche no, perché la vita scorre, rende diversi, e non azzera nulla sino alla fine.
Vincitore dell’Orso d’oro 2011 e dell’Oscar 2012 con Una separazione, nonché di numerosi premi a Cannes 2013 con Il passato, Farhadi è un regista che illustra il cinema iraniano disdegnando completamente il folklore o le particolarità locali cui attingono Kiarostami, Majidi, Milani, perché la sua ispirazione è laicamente occidentale, pur conservando un retrogusto misterioso, che ha la fascinazione delle lingue padroneggiate perfettamente, ma con lo charme di un leggero accento straniero. E se Una separazione sorprendeva per la compattezza sentimentale di uno spettacolo che sollevava questioni civili all’interno di un Iran in bilico fra modernità e fondamentalismo religioso,con Il passato il regista sembra abbandonare quasi del tutto la terra d’origine, per sublimare ulteriormente la sua tecnica.
La disinvoltura dell’oggettività è pressoché perfetta (ossia ben diversa dalle operazioni-verità di Gloria o de La vita di Adèle, vistosamente ricreate in studio), così come intelligentemente qualsiasi sono i bravi protagonisti e i contesti, a sollecitare l’identificazione del pubblico, almeno nei dettagli. Mentre la trama è un sofisticato e puntualissimo meccanismo che tuttavia non elude né le domande né le risposte, senza scomodare la sociologia a sfavore dell’intrattenimento. A differenza di Vargas Llosa (L’eroe discreto) Farhadi non racconta solo per il gusto di raccontare, ma tiene millimetricamente nelle mani sia i sussurri e le grida di una costellazione di punti di vista, di bugie e di segreti, sia il loro strascico di cecità, ipocrisie, rimorsi. Il senso del moderno costeggia la tragedia senza attingere ai greci, anzi, dimostra come il quotidiano mescoli responsabilità, leggerezze, affetti e abissi nel vortice equivoco di apparenze normali. Manca forse qua e là l’emozione di un’epifania definitiva che colpisca veramente al cuore, e l’inanellarsi dei fatti, dei silenzi e dei dialoghi si incrocia forse un po’ letterariamente con gli affanni qualsiasi di vite routinarie molto più francesi che italiane. Ma gli spettatori assistono comunque coinvolti e spiazzati ad una notevole lezione di cinema, al punto che la lunghezza, elemento ormai ricorrente sullo schermo, quasi non si fa notare, inducendoli a riporre le forbici senza peraltro sfoderare i fazzoletti.
GIUDIZIO: 3 soli