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IL PASSATO, di Asghar Farhadi, Francia/Italia 2013, 130 minuti
di Marinella Doriguzzi Bozzo

In Tradimenti (1978), Harold Pinter mette a punto uno dei suoi testi teatrali più suggestivi, e scandisce in nove scene la fine di un triangolo amoroso riavvolto man mano su se stesso, retrocedendo sino al suo primo formarsi: l’amalgama fra il  meccanismo, i personaggi e il linguaggio rimane in perfetto, matematico ed emozionante equilibrio dall’inizio alla fine. Ne Il passato, il quarantenne regista iraniano Asghar Farhadi sembra mutuarne, con tutt’altro spirito, la straordinaria alchimia, capovolgendo però  il vettore temporale in quanto tutto si svolge in un presente intento a capire progressivamente le ragioni del perché e del come  i nostri atti ci seguano. Con un ulteriore, interessante passaggio che sposta il copione dal teatro alla specificità del cinema: l’unità di tempo, di luogo e di azione è resa con la naturalezza del quotidiano, sicché non si respira surrettiziamente la polvere delle assi del palcoscenico, ma il sapore del caffè e latte, l’odore assonnato dei letti disfatti, la serietà  dei giochi dei bambini, grazie ad una ambientazione scenografica di mirabile realismo filologico, che omogenizza gli interni e gli esterni  in un unico, affollatissimo e sempre riconoscibile fondale.

Uomo con un piede in Francia e l’altro in Iran, finché il ruscello della vita non gli si allarga sotto rischiando di travolgerlo, Amhad arriva a Parigi da Teheran. La ex moglie ne ha richiesto la presenza per chiudere le pratiche del loro divorzio. A poco a poco si rende conto delle ragioni inizialmente taciute dalla donna, che vuole risposarsi. Entrano ed escono così dalla scena i figli di primo e di secondo letto, nonché i nascituri del terzo, secondo l’andazzo di famiglie espanse come agavi irte di spine; intanto il concetto di maternità e di paternità si sposta di volta in volta non in termini biologici, quanto in ragione delle possibilità di accudimento e di ascolto, mentre la gamma delle ambiguità, delle azioni e delle reazioni coinvolge lo psicanalitico mondo degli adulti, quello  giustiziere degli adolescenti, lo sguardo  intento altrove dei bambini che tuttavia  spiano con le orecchie e giungono diritti alla verità, giudicando  per istinto osmotico, in assenza delle chiavi interpretative dei grandi. Le condizioni di chi mette al mondo figli credendo ogni volta in un per sempre di coppia che, viceversa, va puntualmente in cocci, vengono indagate secondo una modalità che spannocchia la verità chicco dopo chicco e si dispiega in una sorta di thriller  in cui l’incastro dei piccoli, successivi e continui colpi di scena è sia disvelamento che agente catalitico e motore. Sino ad uno scioglimento che sembra lasciare le cose come stanno, ma anche no, perché la vita scorre, rende diversi,  e non azzera nulla sino alla fine.

Vincitore   dell’Orso d’oro  2011 e  dell’Oscar 2012 con Una separazione, nonché di numerosi premi a Cannes 2013 con Il passato, Farhadi è un regista che illustra il cinema iraniano disdegnando completamente il folklore o le particolarità locali cui attingono Kiarostami, Majidi, Milani, perché la sua ispirazione è laicamente occidentale, pur conservando un retrogusto misterioso, che ha la fascinazione delle lingue padroneggiate perfettamente, ma con lo charme di un leggero accento straniero. E se Una separazione sorprendeva per la compattezza  sentimentale di uno spettacolo che sollevava questioni civili  all’interno di un Iran in bilico fra modernità e fondamentalismo religioso,con Il passato il regista sembra abbandonare quasi del tutto la  terra d’origine, per sublimare ulteriormente la sua tecnica.

La disinvoltura dell’oggettività è pressoché perfetta (ossia ben diversa dalle operazioni-verità di Gloria o de La vita di Adèle,  vistosamente ricreate in studio), così come intelligentemente qualsiasi sono i bravi protagonisti e i contesti, a sollecitare l’identificazione del pubblico, almeno nei dettagli. Mentre la trama è un sofisticato e puntualissimo meccanismo che tuttavia non elude né le domande né le risposte, senza scomodare la sociologia a sfavore dell’intrattenimento. A differenza di Vargas Llosa (L’eroe discreto) Farhadi  non racconta solo per il gusto di raccontare, ma tiene millimetricamente nelle mani sia i sussurri e le grida di una costellazione di punti di vista, di bugie e di segreti, sia il loro strascico di cecità, ipocrisie, rimorsi. Il senso del moderno costeggia  la tragedia senza attingere ai greci, anzi, dimostra come il quotidiano mescoli responsabilità, leggerezze, affetti e abissi nel vortice equivoco di apparenze normali. Manca forse qua e là l’emozione di un’epifania definitiva che colpisca veramente al cuore, e l’inanellarsi dei fatti, dei silenzi e dei  dialoghi si incrocia forse un po’ letterariamente con gli affanni qualsiasi di vite routinarie molto più francesi che italiane. Ma gli spettatori assistono comunque coinvolti e spiazzati ad una notevole lezione di cinema, al punto che la lunghezza, elemento ormai ricorrente sullo schermo, quasi non si fa notare, inducendoli  a riporre le forbici senza peraltro sfoderare i fazzoletti.

GIUDIZIO: 3 soli

Punto it

www.giudiziouniversale.it

Il sito principale è di nuovo online!

Grazie per la pazienza di averci seguito nei rimbalzi degli ultimi giorni.

 

SKYFALL, di SAM MENDES, USA GB 2012, 143 M
di Marinella Doriguzzi Bozzo

Sugli schermi dell’infanzia, Tom e Jerry se le danno di santa ragione, e ogni possibile marchingegno domestico è utile per sortire effetti violentissimi senza che nessuno si massacri definitivamente: la rivalità non è una contrapposizione fra buoni e cattivi, ma un semplice espediente perché la lotta senza esclusione di colpi possa proseguire all’infinito.

Sugli schermi dell’età adulta, le avventure di James Bond ricalcano da quasi cinquanta anni lo stesso schema, ma il conflitto, sotto l’egida manichea del bene e del male, è sempre all’ultimo sangue: i cadaveri dei nemici solo apparentemente “diversi”, si accumulano a corroborare la leggenda del perenne vincitore, perché anche in questo caso l’intrattenimento deve continuare. Lo farà grazie ad una fisicità iperbolica e alla progressione tecnologica di gadget mirabolanti che coadiuvano le più improbabili avventure, tali da beffare sempre sia la logica sia le leggi elementari della fisica. E in entrambi i casi i bambini e gli adulti seguitano ad abbozzare con entusiasmo, perché il bello dell’incredibilità consiste nel sapere stare alle collaudatissime regole del gioco, opportunamente contornate dalla riconoscibilità di vezzi sempre uguali e sempre reiterati.

Finché Daniel Craig e Martin Campbell arrischiano perigliosamente una discontinuità nella continuità formale della trionfante saga bondiana, parafrasando un giovane agente 007 alle prime armi in uno dei prequel più intelligenti e riusciti della storia del cinema seriale, Casino Royale.

Da quella data sono passati appena sei anni, e la regia di Sam Mendes (autore dell’indimenticato American beauty -1999) sbalza lo stesso Craig oltre il confine della maturità, facendogli fallire tutte le prove materiali e psicologiche di riammissione al servizio di sua Maestà. In altri termini, inserisce una linea d’ombra conradiana che scorre lungo tutto il film come lo snodarsi del mitico treno che apre il racconto: mentre il giusto e l’ingiusto sfidano la forza di gravità sul tetto dei vagoni, marcano nel contempo lo spartiacque fra un passato sempre rimosso e un futuro che, grazie all’insolito finale, non sarà mai più lo stesso. Perché qualcuno muore e perché la sequenza del treno, abusato raccordo fra il prima e il dopo, si disperde nella limbica oscurità di acque amniotiche, in una bellissima apertura sui titoli di testa, a significare che siamo più dalle parti di Freud che da quelle di Fleming. Vincendo così l’impossibile sfida di cambiare le regole senza rinnegare la tradizione, sia il regista che gli sceneggiatori e gli attori attingono a piene mani dall’incoscio, in omaggio alla frase chiave del film: “I migliori agenti segreti sono orfani”.

L’esteriorità riconoscibile della trama si incrocia quindi con il mai detto, a sciogliere e nel contempo ad arricchire il sottinteso grumo umano di una personalità (almeno fino all’interpretazione di Daniel Craig) priva di malinconie, di insicurezze, di solitudini inconfessabili mascherate dall’oblioso lenire dell’azione per l’azione. E mentre un filo di autoironia riporta le attrezzature futuristiche alla antiquata prosaicità di una radio e di una pistola, fino a riesumare affettuosamente la decrepita Aston Martin, il dramma di Edipo quello shakespeariano di Re Lear e quello del ‘doppio’ caro a Stevenson, contrappuntano le gesta, senza nulla togliere alla progressione consolidata del plot.

Ne risulta un intrattenimento godibile dagli esegeti come dai neofiti, da coloro che si accontentano di una lettura univoca come da quelli che amano le stratificazioni dei significati: si vedano a questo proposito il mestiere spionistico come un surrogato della famiglia, la direttrice M del S.I.S. nelle vesti di madre e di mantide, il cattivo Xavier Bardem (al suo meglio quando viene sfigurato da chiome impossibili come già in Non è un paese per vecchi dei fratelli Cohen -2007) a rappresentare il collega-congiunto-nemico parodistico, fino al colmo (per un femminiere incallito) di un accenno omoerotico che è in realtà un collegamento onanistico fra il protagonista e il suo doppio degenere.

Il finale domestico e allucinato chiude il cerchio dei conti esistenzial-psicanalitici in sospeso, anche se è l’unico vero difetto del film, perché troppo lungo e insistito. Ma tutta la pellicola è nell’insieme un teorema ben congegnato in chiave sistemica, dove ogni particolare rintocca e modifica gli altri, grazie sia alla macchina da presa che frange, rifrange e moltiplica le identità sullo sfondo di scenografie che ricordano i labirinti dell’ego, sia agli attori che mettono in atto una tripla recita di somiglianze,di diversità e di simbologie in un calibratissimo gioco fra il vero, il falso e il verosimile.

Difficilmente le monarchie sono costellate di degni eredi, perché le leggi genetiche provocano inevitabili salti. Tuttavia, contrariamente al parere di molti, Craig è il primo a raccogliere degnamente il testimone-scettro di Connery, confondendone la cifra di ex povero ma bello degli anni sessanta (assurto agli snobismi elitari di massa dei Martini mescolati e non shakerati nonché degli smoking impeccabili sotto la muta subacquea) con una problematicità quasi anonima: stropicciamento di rughe, occhi azzurri arrossati dalla stanchezza di vivere, orecchie a cavolfiore per sentirci meglio, ad ascoltare anche il cuore. L’individuo vorrebbe allontanare il feticcio e arrendersi all’avvicendamento generazionale modernamente contemplato dal film, ma la muscolatura continua ad obbedire ai riflessi condizionati di una disciplina solitaria lunga una vita.

GIUDIZIO: 2 soli

VALERIO NARDONI, CAPELLI BLU, EDIZIONI E/O, 144 P, 16 EURO

di Giuseppe De Marco

Un primo romanzo è, per definizione, un’opera acerba. Tutt’al più ricca di potenzialità, a volta latenti. In alcuni casi il potenziale si avverte con maggiore intensità. Qualche volta colpisce in modo inaspettato. Raramente, ti stende.

Stop. Siete arrivati.

Di Valerio Nardone, livornese classe 77, il lettore medio saprà poco. A meno che non sia un appassionato di poesia spagnola o un ammiratore del poeta Mario Luzi, di cui Nardoni è stato collaboratore. Sì perché il nostro, critico e traduttore, è anche, Dio lo perdoni, poeta. Anzi peggio, procacciatore di poeti, visto che ha fondato una casa editrice apposita e si è dato anche la pena di istituire un premio internazionale di poesia.

Cosa può spingere a leggere un’opera prima di un critico, traduttore e per giunta poeta? Difficile dirlo. Ma qualunque cosa sia, conviene non lasciarsela sfuggire. Sempre che non si voglia perdere l’occasione di gustarsi una piccola e piacevolissima sorpresa letteraria. Jilium, che nonostante la laurea in Storia dell’arte  (o forse, ahilui, proprio per questo) di mestiere fa il cassiere in un discount, si imbatte una sera in una ragazza da capelli blu, stesa apparentemente senza vita proprio di fronte al portone di casa sua.

Da questo incipit di genere, si dipana pagina dopo pagina un intreccio frastornante. Seguiamo il protagonista mentre porta a casa il corpo della giovane donna; lo associa a quello di una ragazza conosciuta pochi giorni prima in un Megastore: capelli blu entrambe, impossibile sbagliare. E poi, in un crescendo di azioni irrazionali (ma sono vere o immaginate?) si finge il suo rapitore rispondendo ad un malavitoso che la cerca al telefonino; nasconde la borsa della ragazza e un gruzzolo sospetto di banconote spuntate dalla custodia degli occhiali. Della ragazza, ad ogni modo, il giorno dopo non c’è più traccia.

L’autore dà l’idea di essersi divertito a tessere abilmente una trama giallo/noir su un ordito onirico e a tratti surreale, dando vita ad un ricamo di gran lunga più complesso e articolato di quanto possa apparire ad una prima impressione. Che volendo (e non a caso, c’è da scommetterci) è un po’ quello che accade con la poesia. Dove le parole riescono sempre a nascondere una realtà multistrato, che pare lì a portata di mano e poi magari ti sfugge.

Così è anche per questo libro. Che è una riflessione straniante sull’io e sull’insostenibile precarietà dell’essere. Ma è anche un piccolo spaccato dell’oggi, dei giovani e di una società nella quale tutti sembrano navigare a vista. Come il protagonista del racconto, un “funambolo senza fune” che starebbe bene in un film di Fellini come in un libro di Dostoevskij. Oppure, volendo, è un giallo in piena regola, sebbene in realtà piuttosto fuori dalle regole.

Chiaro no? O forse no, per niente.  Ma non importa. Perché come detto è forte il sospetto che proprio questa sia in fondo l’intenzione dell’autore. Suggerire dalle spalle, spargere indizi qua e là e mescolare il tutto in una narcotizzante cortina fumogena. Complice la memoria confusa e selettiva di Jilium, per cui quello che appare vero in una pagina viene smentito in quella successiva, ben presto ci si lascia coinvolgere in un labirinto dove quasi niente e nessuno sono quello che sembrano, e perfino l’io narrante passa con disinvoltura dalla prima alla terza persona.

Se ne esce con la sensazione di non sapere se si è appena fatto un sogno o un incubo. Vagamente felici e oscuramente inquieti. Non è già molto di più di quanto si possa chiedere ad un’opera prima?

LA SEMPLICITA’ INGANNATA. SATIRA PER ATTRICE E PUPAZZE SUL LUSSO DI ESSER DONNE, di e con Marta Cuscunà

di Igor Vazzaz

Uno dei refrain più usati e abusati della nostra critica scenica, unitamente agli immancabili noncisonopiùautori, serriamolefilaadifesadelnostroteatro, comefaràlacriticaasopravvivere, è quello riguardante drammaturgia e spettacolo al femminile. Come se l’espressività sia inoppugnabilmente questione di gender. Non vogliamo liquidar temi complessi (sono i refrain a banalizzare), ma restiamo convinti, innamorati come siamo e non da ieri di alcune grandi “attautrici” (Franca Valeri e Lucia Poli su tutte), che la questione di cui sopra sia sovente posta in maniera oziosa, quando non letalmente “luogocomunista”.

Ci apparecchiamo così a vedere la Marta Cuscunà di cui si dice un gran bene (all’attivo l’apprezzato È bello vivere liberi, monologo ispirato alla storia di Ondina Peteani, prima staffetta partigiana), senza arrovellarci sulla di lei definizione sessuale, bensì con la curiosità per uno spettacolo che s’annuncia composito e ricco sotto il profilo performativo.

La semplicità ingannata si apre con una ridicola marcia nuziale in Midi e il sorriso smagliante d’una biancovestita sposa che illustra, battitrice in un’improbabile asta da mercato della carne, le qualità di donne da marito offerte a uomini con doti ribassate. Metà Cinquecento: il ghigno d’una scrittura che si vorrebbe satirica e tagliente, catapulta la sala in un mondo di contabilità nuziali, voti e veli imposti, ipocrisie familiari con l’attrice che alterna segmenti di narrazione (rapida, talvolta sin troppo brillante) a raffigurazioni di caratteri, in un gioco di rimbalzi interpretativi.

Il tratto principale è comunque la caricatura di un mondo, di una realtà storicamente attestata, di un’epoca inquadrata secondo un punto di vista che definiremmo illuministico: ah, com’eran cupi, quei tempi cupi! Smesso l’abito sponsale, Marta Cuscunà impiega un poco a intercettare le frequenze del pubblico; la prima metà dell’assolo attorico risulta, infatti, sospesa, talvolta algida, nonostante alcuni spunti strappino sorrisi non circostanziali.

Scena spoglia, non fosse per alcuni sparuti arredi, ivi compreso il tavolo sulla destra con le sei pupazze del sottotitolo: figure bombate, a ricordar le matrioske russe, hanno fattezze buffe d’altrettante suore. La recita, dipanatasi tra puntualizzazioni storiche, digressioni di costume e brevi sketch, si concentra sulla misconosciuta vicenda del convento delle clarisse di Udine, nella seconda metà del secolo XVI al centro d’una peculiare e insidiosa querelle con l’istituzione ecclesiastica centrale: le monache, sfruttando un contesto favorevole, riuscirono a costruirsi un’importante indipendenza (in prima istanza culturale, poi addirittura d’appoggio sociale), quasi animando una sorta d’insurrezione religiosa rispetto al rigido potere costituito di Santa Romana Chiesa. È nella seconda parte dell’allestimento che Marta Cuscunà denota una non comune abilità nell’alternare di registri, dal monologar narrante all’interpretazione polifonica delle sei monachelle, slittando di voce in voce con ammirevole disinvoltura.

Lo spettacolo decolla, il ritmo si fa incalzante, la scrittura sembra voler sfruttare ogni risorsa, ogni trucco, peccando forse di scarsa centratura: la continua variazione di forme (drammaturgiche, non ci riferiamo qui alla recitazione, vero punto forte dello spettacolo) è forse a rischio d’incoerenza complessiva. In altro senso, La semplicità ingannata ci pare soffrire, purtroppo, d’una stasi di fondo, a ingabbiare l’apprezzabile verve interpretativa: il senso del lavoro resta incagliato nel pelago caricaturale, nella tacita considerazione di quanto il passato sia da squalificare, come se noi “contemporanei” potessimo dirci comodamente assisi sulla vetta della Storia. Non ci basta, ostinati come siamo a pensare che in scena debba vedersi il dubbio e non lo spaccio di certezze sin troppo facili. La Chiesa è (stata) cattiva? E allora? Se manca la sorpresa, il guizzo, quel qualcosa da “portarsi a casa” (o almeno il tentativo in tal senso) che vorremmo sempre essere il lascito di una fruizione, non possiamo accontentarci del ricordo pur divertito di un’attrice dalle indubbie doti. Tutto questo, al di là della drammaturgia al femminile e di qualsivoglia considerazione di contorno, di cornice sociale, culturale o d’altra matrice. Nondimeno, rispetto alle perplessità espresse, il pubblico applaude, felice e rassicurato, buon per lui.

GIUDIZIO:  1 ombrello

Prossimamente:  14 novembre, Monfalcone, T.Comunale; 21-24 novembre, Genova, T.della Tosse; 15 dicembre Mira (VE), T.Villa dei Leoni

Sex Pistols, Nevermind the bollocks. Here’s the...,  1977, Virgin Records

di Simone Pilotti

I mitici Sixties erano superati da un pezzo e con loro se n’era andata la speranza di cambiare la società a suon di motti pacifisti sulle note di Beatles, Rolling Stones e Jimi Hendrix vari. Le adunate di hippies e i mega-concerti stile Woodstock erano ormai dimenticati. La seconda metà degli anni ’70 riuscì ad esprimere solamente il crescente disagio giovanile, le forti tensioni sociali e un pessimismo diffuso. A Londra, in particolare, tutto questo si sommava a una pesante disoccupazione e una crisi economica che sfociava molto spesso in scontri di piazza. I motti ottimisti del decennio precedente venivano sostituiti da un drastico “No Future” che sintetizzava al meglio le aspettative della nuova generazione.

Proprio da queste rovine nasce uno dei dischi più rivoluzionari e innovativi del rock: Never Mind The Bollocks, Here’s The Sex Pistols, ovvero il primo album di quattro ragazzacci londinesi che sfruttano la musica per urlare tutto il loro disprezzo, la rabbia e l’odio verso la società contemporanea. Quattro ragazzacci che rifiutano tutti i virtuosismi musicali dei generi precedenti, sfregiano il rock riducendolo ad una semplice chitarra distorta (rabbiosa, anche lei). Semplicemente, quattro ragazzi punk.

Il 28 ottobre 1977 viene pubblicato l’album d’esordio dei Sex Pistols. L’origine del disco, però, si colloca molto tempo prima, tra il ’73 e il ’74, quando Paul Cook (batterista) e Steve Jones (chitarrista)  formarono una band che cambierà diversi nomi prima di arrivare al definitivo Sex Pistols. Questo nome nasce dal negozio d’abbigliamento di nome “Sex” di comune frequentazione per i membri della band, di proprietà di Malcolm McLaren, personaggio celebre per la sua cupidigia di denaro che sarà decisivo nella rovina della band a pochissimi anni dall’esordio discografico. Proprio da clienti della boutique vengono pescati il bassista originario, Glen Matlock, e il cantante John Lydon, soprannominato “Rotten” (“marcio”) per il suo aspetto tutt’altro che raffinato. Così, nel 1975 la band, assunta una formazione definita, intraprende una serie di esibizioni live che spesso vengono interrotte a causa della loro volgarità, e che tuttavia accrescono la celebrità del quartetto nell’ambiente londinese. I Sex Pistols vengono, infatti, messi sotto contratto dalla EMI: la casa discografica pubblica i primi singoli del gruppo, che raggiungono repentinamente le vette delle classifiche di vendite, e ne promuove l’Anarchy Tour, in cui la band diventa famosa per le sue provocazioni e per il suo profondo anti-conformismo.

Anche questi live, però, dal punto di vista organizzativo sono un disastro: concerti interrotti o addirittura annullati prima dell’inizio, spesso da autorità locali che osteggiano fortemente la band di Malcolm McLaren. Tutto questo porta la EMI ad interrompere la collaborazione con i Sex Pistols, che a loro volta firmeranno un nuovo contratto con la A&M Records che, però, dura ancora meno di quello precedente, soli sei giorni. Nonostante i Sex Pistols si dimostrassero catastrofici sotto questi aspetti, la loro fama cresceva e il loro modo di suonare, così innovativo e fuori dagli schemi, era sempre più apprezzato dalle nuove generazioni.

L’album raccoglie dodici tracce tra singoli usciti già gli anni precedenti e pezzi nuovi. Holidays in the Sun rompe il ghiaccio, raccogliendo le impressioni che ebbe la band durante un viaggio in una Berlino ancora divisa dal muro. Si susseguono, poi, canzoni in autentico stile punk, nei testi e nelle sonorità, fino a uno dei brani più celebri del disco: God Save The Queen. Ovviamente da una band come i Sex Pistols non ci si aspetta un elogio a sua maestà: infatti si tratta di una canzone di condanna, più che mai ironica, in cui Lydon demolisce le autorità inglesi. Dopo altri due intermezzi puramente punk, Problems e Seventeen, troviamo il capolavoro del disco, Anarchy In The UK, che in realtà era già stato pubblicato un anno prima e che aveva rappresentato fin da subito il manifesto artistico dei Sex Pistols. Il riff della chitarra accompagnato da una batteria serrata fa da sottofondo alla voce irriverente dell’anticristo Lydon (“I am an antichrist” le prime parole della canzone), creando così una delle canzoni punk meglio riuscite di sempre.

A questo punto si scopre uno dei punti di forza del disco: pur ripetendosi lo stile musicale in modo apparente monotono, le ultime tracce non sono affatto pesanti e soporifere, tutt’altro. L’album scorre tra l’insolenza di Submission e la derisione del fenomeno della disoccupazione di Pretty Vacant fino alla ciliegina sulla torta rappresentata l’ultima traccia, EMI che, come è facile immaginare, esprime il punto di vista di Lydon & Co. sulla risoluzione del contratto con la casa discografica.

Il disco ha sùbito un impatto pazzesco sulla musica fiacca di fine anni ’70. E così, mentre l’hard-rock e i suoi pionieri (Led Zeppelin su tutti) non trovano il modo di rinnovarsi, il progressive ha esaurito la sua vena creativa e vede molte band del genere sciogliersi o, peggio, avvicinarsi al pop (Genesis, Van Der Graaf Generator come esempi), molti giovani scelgono il punk. Non a caso i Sex Pistols vengono presi come modello da un numero sempre crescente di gruppi. Joe Strummer e Mick Jones, spina dorsale dei Clash, ammisero di aver deciso di suonare musica punk proprio dopo aver assistito a un concerto delle pistole sexy. Ma anche band inglesi come Damned, Stranglers e i PIL, gruppo fondato da Lydon dopo la fine dell’avventura dei suoi Sex Pistols.

Nei mesi prima della pubblicazione del disco, la band decide di cambiare bassista, optando per un altro frequentatore del negozio del manager McLaren, il leggendario Sid Vicious. In realtà Vicious diventò essenzialmente un’icona punk, visto che non imparò mai veramente a suonare il basso; durante i live, infatti, fa solamente finta di suonare e durante le registrazioni di Never Mind The Bollocks viene richiamato Matlock come bassista.

Quello che seguì fu il lento declino. I concerti del tour, che avrebbe dovuto promuovere ulteriormente l’album, si chiudono sempre più spesso con scontri e mega-risse, fino all’ultimo concerto che si tiene negli USA nel gennaio del 1978.

Never Mind The Bollocks dunque è il vero sunto di tutte le vicende del gruppo. Questo album riesce a raccogliere e mescolare al meglio gli sfoghi di tutta una generazione, i concerti ostacolati in ogni modo dalle autorità, il desiderio di abbattere tutto quello che gli hippies speravano di cambiare, le creste colorate e i vestiti strappati, la boutique di McLaren, i denti marci di Lydon e un po’ di sano nichilismo. E’ tutto lì dentro, è tutto dentro quel rock straziato, le chitarre distorte, le vocali urlate e i riff di basso di Sid Vicious. Questo disco è il punk.

GIUDIZIO: 4 soli

Io Bertolucci e tu

IO E TE, di Bernardo Bertolucci, Italia 2012, 97 minuti

di Marinella Doriguzzi Bozzo

La buona notizia è che una volta tanto non abbiamo letto l’omonimo  libro di Niccolò Ammanniti da cui il film è tratto, e quindi siamo esentati, volenti o nolenti, da qualsiasi confronto proprio e improprio. La cattiva notizia è che il tempo non solo passa, ma con Bernardo Bertolucci si è anche comportato male, inchiodandolo su una sedia a rotelle: lui, il regista della danza come liberazione e delle solitudini multiple come catarsi.

Che si tratti di un film d’Autore lo si vede fin dai titoli di testa: sobriamente bianchi su fondo nero, come negli anni sessanta, se si eccettua il vezzo moderno dei cognomi impressi in rosso; e lo si desume dai dettagli, nonostante il tema del luogo chiuso sia un prolungamento di Ultimo tango a Parigi (1972), L’assedio (1999), The dreamers (2003) perdendo comunque di magia con l’avanzare degli anni.

Il perché non è così facile a spiegarsi: sembra che il regista scelga i suoi interpreti e si appropri della loro storia non tanto in qualità di professionista, ma sotto la specie di uomo con molteplici rimpianti, sommandosi i limiti  della maturità ai vincoli dell’impedimento fisico.Per cui i due protagonisti sono come vampirizzati da qualcuno che si appropria dei loro corpi e, pago anche solo di questa vittoria, vi si prolunga o addirittura vi si reincarna. Non acquisendo più la bellezza degli attori come elemento distintivo, bensì le difettosità abbozzate  della giovinezza come emblemi di un momento che non torna, perché ha ancora bisogno di un futuro per completarsi ed esprimersi.

Così il quattordicenne Lorenzo è un accumulo di brufoli in un’epoca in cui l’acne è ormai sconfitta, si rapporta ad un ritmo interiore dettato sia dagli umori come dalla musica in cuffia, e la goffaggine motoria dell’adolescenza è affidata al fruscio ventoso di  felpe e materiali tecno nonché alle protesi di zaini voluminosi, traslocatori quotidiani di insondabili continenti. Mentre la ventitreenne sorellastra Olivia concentra nell’altezza stilizzata, nella  rigogliosità della biondezza e dell’accento siciliano il prolungamento dell’età di Lorenzo, minata da un passato e-forse-da un futuro da eroinomane (con  crisi di astinenza  avulse da qualsivoglia realismo clinico).

Per circa una settimana i due regrediscono alla condizione quasi fetale di primo uomo e di prima donna sulla terra, asserragliandosi per motivi diversi in una cantina. Che li obbliga ad una promiscuità della carne che lentamente si addolcisce nel reciproco riconoscimento degli affetti. Mentre la solitudine che li ha portati lì resta fuori, sospesa nell’eterno grido  di furore e passione, fragilità e ribellione che accomuna i giovani nel loro contraddittorio atteggiamento verso un mondo di simili e di dissimili: “Portatemi con voi” e “Non mi avrete mai”. Come  a sottolineare il bisogno di un’identità distintiva  che schiva la tentazione dell’omologazione e vuole quindi maturare nell’isolamento, ma   paradossalmente ha bisogno del confronto, se non con la comunità, almeno con l’altro. Per concentrarsi ancora un po’ nel calcolo dello slancio, prima di proseguire o di perdersi.

Il copione ha un prologo famigliare ambiguamente goffo e si dipana fortunosamente tra piccole forzature e ingenuità, mentre il carattere dei protagonisti è  affidato alla loro fisicità, agli atti che compiono e alle parole che dicono piuttosto che  alla perizia della recitazione, tra  sgradevolezze e esteriorizzazioni consolatorie  letterarie e abbastanza stereotipate.

Rimangono pertanto l’ambientazione (che da rifugio ostile si fa a poco a poco nido, in modo da  determinare lo schiudersi delle prerogative dei due) e la maniera di girare, tale da considerare il mondo circostante secondo l’orizzontalità dei dormienti. Perché è nelle primarie necessità fisiologiche e nel bisogno di stare sdraiati a condividere il buio che l’intimità coatta diventa prima avvicinamento, poi scambio  spontaneo e infine punto di vista da cui guardare agli accadimenti.

Le qualità del grande cineasta  si colgono dunque nei particolari, dal modo di inquadrare il misterioso arrivo di lei all’ordine meticoloso di lui, che colloca geometricamente le  vettovaglie, osserva un formicaio con la lente, schiva una madre di maniera e un padre lontano. Ma mancano le emozioni accerchianti, le rivelazioni che una storia dilata  nella coscienza degli spettatori, senza che gli elementi visivi rimangano corticalmente nella memoria.

Per cui, mentre da un lato  plaudiamo al ritorno di un regista disuguale ma comunque  amato, auspicando che questa nuova ripresa possa più ispiratamente proseguire, dall’altro ci poniamo una domanda: cosa può dire questo esile film a cinefili smaliziati ma non    celebrativi a prescindere, nonché ad un largo pubblico, giovane o meno che sia?

GIUDIZIO: sole/ombrello

Per il momento

Causa il prolungarsi della manutenzione sul sito-madre, ci trasferiamo temporaneamente qui. Non trovate perciò tutto l’archivio degli anni scorsi, ma solo le recensioni a partire da oggi.

Scusate l’inconveniente tecnico e continuate a seguirci!

E’ ORA!

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In anteprima l’editoriale con cui Remo Bassetti presenta il sito www.giudiziouniversale.it 

E’ ormai indelebile nella memoria collettiva la maniera in cui Bettino Craxi fu espulso dal proscenio politico: sotto un lancio di monetine davanti all’Hotel Raphael. Caduto nell’oblio, invece, è uno dei modi principali con cui la scena politica cercò di guadagnarla. Un bel giorno se ne uscì dicendo una cosa del tipo: “Noi socialisti non ci riconosciamo nella tradizione marxista. E’ venuto il momento, piuttosto, di rivalutare Proudhon”. Forse chi fosse il filosofo lo sapevano in pochi, ma di sicuro erano il quadruplo, specialmente nell’ambito parlamentare, di quelli che lo sanno oggi. Eppure Craxi ritenne quel riferimento una mossa politica adeguata e spiazzante. Come si vede, dunque, egli non fu solo quel dubbio precorritore della modernizzazione, come oggi viene ricordato da coloro che intendono riabilitarne la figura, ma fu ancora e a pieno titolo un uomo appartenente a una fase culturale del nostro paese che sembra oggi lontana anni luce. Una fase nella quale il background della nostra classe politica era ancora informato a un’educazione umanistica e ai suoi codici. E’ evidente a tutti che oggi, per ignoranza non meno che per calcolo, nessuno si sognerebbe di citare Proudhon per prendere voti, avendo a disposizione argomenti e forme retoriche più spicce, volgari e didascaliche.

Ma a questo scarto, che potrebbe persino apparire un’evoluzione positiva, in senso democratico e anti-elitario, è direttamente collegata una conseguenza importante: ipocrita o meno che fosse il suo volare su temi elevati, Craxi dovette abbandonare il paese a fronte di alcuni scandali; oggi, scandali non meno impressionanti suscitano fastidio verso colui che li denuncia, e la reazione di una buona parte della popolazione si sostanzia in un: “E allora?”. Così, all’indifferenza di quella parte di popolazione ci si può appoggiare per rimanere al potere, giocando a semplificare la coincidenza tra consenso popolare e democrazia.

Di fronte a questo l’intellighenzia si divide in due. Da una parte vi è chi continua in un puntuto inseguimento delle infrazioni, provando a dimostrare che le corruzioni non hanno spostato dieci milioni ma venti, che i reati non sono cinque ma cinquanta. Il che sarà pure eticamente meritorio, ma da solo è finalisticamente sterile. Per indignarsi basterebbero ( e avanzerebbero) dieci milioni e cinque reati: se uno dimostra di essere immune è inutile insistere e rilanciare. Sarebbe come convincere un sordo della bellezza della musica proponendo al suo ascolto strutture armoniche sempre più complesse. Dall’altra parte, vi è un compiaciuto elogio del fantuttismo: chi è al potere fa quello che tutti fanno e vorrebbero fare. Perché i magistrati se la prendono con lui? Dopo di che, il fantuttismo viene elevato a morale dominante e prêt-à-porter, e dietro il codardo paravento della trasgressione altrui si nasconde un’arroganza priva di ogni splendore nietzschiano. Da questa sostanziale incomunicabilità di mondi non si esce se non si entra nell’ordine di idee di: 1) capire perché c’è quel consenso; 2) capire attorno a quale collante alternativo, e socialmente compatibile, può essere costruito un nuovo consenso; 3) spiegare perché il secondo collante è preferibile al primo per la collettività e, di riflesso, per l’individuo.

Una microcondotta capace di far saltare i nervi a chi vive in una città è bloccargli l’uscita dell’automobile con il proprio veicolo. Sono certo che sull’antisocialità di questa ostruzione ognuno dei nostri anti-moralisti avrebbe pochi dubbi: trovandosi nel ruolo della vittima sbraiterebbe contro il sopruso e, persino, chiamerebbe un vigile. Non direbbe che bisogna mediare tra le due posizioni invece che criminalizzare quello che ha parcheggiato male, o candidarlo ad assessore alla viabilità; non direbbe che con il morire delle ideologie tutte le distinzioni sono sfumate, che bisogna riscrivere il codice della strada, non accetterebbe di essere definito un rudere del passato, insensibile alla modernità e ai costi che essa comporta né uno snob che subito si pone su un presunto piano di superiorità civica rispetto all’interlocutore. Non accoglierebbe a capo chino quest’ultimo quando, con ancora tracciato all’angolo superiore del labbro il baffo del cappuccino che ha appena consumato al bar, gli dicesse: “Ma insomma… lo fanno tutti!”. E nessuno, in questo caso, difenderebbe ideologicamente il primo automobilista, a meno di non coltivare, molto scioccamente, l’intima certezza di potersi trovare nella vita sempre nella parte di quello che blocca, e mai in quella di chi viene bloccato.

La vita pubblica, ma anche quella privata, è ormai un percorso accidentato, disseminato di ignoranze e inciviltà. Ciò è potuto accadere perché la cultura è stata gradualmente espulsa dai contesti che dominava – cominciando dalla politica ma finendo persino con la scuola e l’editoria – ed è stata sostituita da una nuova prospettiva che però, come ultimo onore delle armi al caduto, o forse supremo scippo d’identità, ha preso a fregiarsi anch’essa dell’appellativo “cultura”: è la “cultura aziendale”. Sia chiaro che l’azienda è un motore sociale, e non necessariamente s’identifica con la grettezza e l’egoismo: però è una cosa diversa dalla cultura, con la quale deve continuamente misurarsi e convivere, integrarsi e sovrapporsi. Rimane il fatto che in alcuni casi è prioritaria la quadratura dei bilanci e in altri l’affermazione di valori umani irriconducibili all’arricchimento e alla produttività.

Le più impressionanti dismissioni a favore dell’azienda sono avvenute proprio da parte della politica e dell’editoria. Il cavallo di Troia attraverso cui l’azienda è penetrata nei settori cardine della vita sociale è il target: per effetto di questo strumento la politica non è più l’esercizio della persuasione rispetto a un’idea originaria bensì l’appalto della propria azione ai sondaggi e agli istinti dei consumatori. Non diversamente agiscono i giornali che, formatisi un pubblico, lo corteggiano confermandolo nelle opinioni che già possiede. Ognuno rimane avvinghiato al suo media (sia esso il Tg4 o il quotidiano Repubblica) come a una coperta di Linus e la circolazione delle idee, che si sviluppa nel confronto aperto tra le opinioni piuttosto che nella chiusura di ognuna nel suo recinto, muore miseramente. Allo specialismo professionale, che già modella spesso personalità meno ricche e sfaccettate, si aggiunge lo specialismo umano, la cristallizzazione della personalità individuale secondo gli schemi dettati dal target di appartenenza.

Ci sono vari modi in cui potremmo presentare questo magazine on line: un sito che recensisce tutto, un quotidiano culturale, una rivista espressione di impegno civile. Tra tutti, scegliamo questo: vogliamo essere il partito-cultura. Immaginando e sperando che ancora un anfratto ci sia nel mondo dominato dal partito-azienda e usando quest’immagine senza la pretesa di aspirare a rappresentanze parlamentari.

Per cosa può combattere un partito-cultura? Alcuni obiettivi affiorano d’impulso: la riqualificazione professionale e salariale dell’intero corpo insegnante, che dovrebbe essere la spina dorsale di una civiltà; la diffusione nel corpo sociale dello specifico femminile, dunque non la semplice emancipazione della donna ma la valorizzazione dell’identità di genere quale modello culturale rilevante, e anzi paradigmatico; la netta apertura verso la società multirazziale, pur con la cura di gestirla piuttosto che farsene travolgere; la difesa delle istituzioni, in uno con la tutela dei criteri per la loro credibilità; il ruolo attivo dello Stato nella promozione dei valori costituzionali; il ripensamento del modello di sviluppo consumistico. Frequentemente, dunque, di questi temi qui si troverà traccia.

La ricetta che seguiremo, il più delle volte, sarà quella della “recensione”, applicando lo schema al materiale culturale tradizionale – del quale proporremmo un’offerta complessiva che aspira a non avere molti eguali sul web e nemmeno su carta – ma anche a tutto ciò che è in qualche modo rivelatore del nostro tempo. Ci ispireremo a un modo di sentire la cultura che è allegro, lieve talvolta, quasi edonista, mai penitenziale. Proveremo a dimostrare che internet non significa la morte della cultura, e tanto meno della lettura, cercando anzi di rendere reciprocamente funzionali i rimandi tra la carta e la rete: il nostro stesso progetto troverà compimento con la pubblicazione di libri. Considereremo una ricchezza il binario parallelo che la forma-sito impone ai pareri degli esperti e agli interventi scompaginanti dei lettori, e la contaminazione in genere. Il sito, che riceverà aggiornamenti quotidiani, ambirà, nel suo impeto “universale” a divenire una piccola, essenziale enciclopedia del presente. Confideremo, in questo modo, di scuotere gli animi dai rischi dell’apatia, dell’isolamento, dell’egocentrismo. Perché, se è vera la nota asserzione che la cultura è ciò che rimane quando si è dimenticato tutto, è ancora più vero che la cultura, la politica e la solidarietà sono quelle che mancano, tutte insieme, quando si sono dimenticati gli altri.